La recente ordinanza n. 13294/2025 della Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione affronta un tema centrale per chi si occupa di responsabilità civile e tutela dell’ambiente: il risarcimento del danno da inquinamento ambientale e l’accertamento del nesso di causalità quando vi siano possibili concause.
La vicenda trae origine dalla richiesta di risarcimento per malformazioni congenite che si assumevano causate dalle emissioni nocive di una raffineria. Nonostante la consulenza tecnica avesse riconosciuto l’esistenza di diverse possibili fonti di danno (raffineria, pesticidi, fumo materno), nessuna di esse poteva essere indicata come causa certa delle patologie. La domanda è stata quindi rigettata sia in primo grado sia in appello, in assenza di una “probabilità qualificata” che permettesse di individuare, secondo il criterio del “più probabile che non”, la responsabilità della raffineria rispetto ad altre spiegazioni alternative.
Lo standard probatorio: non basta la mera possibilità
La Cassazione ribadisce che, in materia di danno da inquinamento ambientale, la mera possibilità logica non è sufficiente: occorre una dimostrazione concreta e specifica del nesso causale, anche in termini probabilistici, ma sempre con esclusione di spiegazioni alternative plausibili. La certezza assoluta non è richiesta, ma serve una probabilità qualificata, supportata anche da dati epidemiologici, per tradurre la probabilità in certezza giudiziale.
Responsabilità oggettiva e onere della prova
Un altro aspetto chiave riguarda l’applicazione dell’art. 2050 c.c. (responsabilità per esercizio di attività pericolose): l’onere per il gestore di dimostrare di aver adottato tutte le misure idonee a evitare il danno scatta solo dopo che sia stato provato il nesso causale tra attività e danno. In assenza di tale prova, la responsabilità oggettiva non può essere affermata.
Perché questa sentenza è importante?
Questa pronuncia rappresenta una guida per chi si occupa di contenzioso ambientale e responsabilità civile: la strategia processuale deve fondarsi su una ricostruzione rigorosa del nesso causale, supportata da elementi scientifici solidi e da una redazione puntuale degli atti processuali.
Solo così è possibile superare il filtro dello “standard probatorio”.
Inoltre, viene delimitata la portata dell’art. 2050 c.c. in tema di responsabilità oggettiva, circostanza da tenere in debita considerazione se si è chiamati ad difendere aziende che svolgono attività pericolose.